I “Grandissimi” della storia raccontati al corso di alfabetizzazione nel carcere della Spezia.

 

Ho avuto il piacere di svolgere alcune lezioni nel carcere della Spezia, affiancando due insegnanti del CPIA che tengono un corso di alfabetizzazione una volta alla settimana per quattro ore. Prima del Covid-19 si riservavano a questo corso più ore (almeno 3 volte alla settimana). La giornata di lezione è divisa in due turni: un primo turno dalle 9 alle 11 e un secondo dalle 11 alle 13. Inizialmente si era partiti con l’idea di formare un primo gruppo composto da persone con un livello più alto di lingua, capaci di comprendere e scrivere in italiano e un secondo gruppo con analfabeti o persone con molte difficoltà di scrittura. Successivamente però, questi gruppi si sono mescolati (per cause extracurriculari, quali motivi di orario, orari di lavoro, colloqui dei detenuti con le famiglie…) così non è stato possibile creare due livelli distinti e separati.

I detenuti che partecipano alle singole lezioni oscillano fra i 5 e i 10. Essendo un corso di alfabetizzazione tutti gli studenti sono stranieri, per la maggior parte provenienti dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Albania o dall’Egitto.

Il primo impatto con i detenuti è stato decisamente positivo: i ragazzi, che hanno mediamente un’età compresa fra i 20 e i 40 anni, si sono mostrati socievoli, felici e anche piuttosto incuriositi dalla mia presenza. Mi hanno rivolto moltissime domande: mi sono presentata a loro, cercando di soddisfare tutte le loro curiosità. Qualcuno mi ha chiesto quale sia stata la mia sensazione appena ho varcato la soglia carceraria. Questa domanda mi ha colpito perché, da quel preciso istante, ho capito che il carcere è un luogo di riflessione. La mia sensazione è stata positiva, ma naturalmente anche negativa: nell’aria si può percepire la sofferenza. Le stanze piccole e le finestre collocate nella parte alta della parete, coperte da grate, danno un senso di claustrofobia; la luce naturale entra con più difficoltà. Anche nell’area esterna i muri sono altissimi e non permettono di vedere nulla se non l’ambiente circostante: il detenuto perde la cognizione della visione di lontananza perché tutto si trova vicino.

Le lezioni si svolgono nella cappella della chiesa: è stato ricavato uno spazio con banchi e sedie oltre ad una lavagna a gessi. Un detenuto mi ha domandato se avessi paura di trovarmi in quel luogo e in qualche modo voleva accertarsi che capissi di essere al sicuro: questo è stato molto impressionante, ma anche interessante. Certamente non mi sentivo impaurita, anzi ho chiesto perché mai avrei dovuto avvertire questo sentimento. I detenuti si sentono in difetto, marchiati da una società che li vede come pericolosi, cattivi, sbagliati. Di certo hanno commesso degli errori e questo, bene o male, ha generato delle situazioni di sofferenza.

In una parte della lezione è stato portato avanti una sorta di progetto su alcuni personaggi interessanti della storia, non solo raccontandone la vita, ma anche citando le loro frasi più famose che portano a interessanti spunti di riflessione, trasferendo la lezione su un piano più profondo. L’insegnante ha elaborato delle schede, che vengono distribuite agli alunni, in cui si ricostruisce la biografia del personaggio al centro della lezione: mancano delle parole, gli studenti devono riempire gli spazi andando alla lavagna uno alla volta. In seguito, gli allievi scrivono sotto dettato alcune citazioni di quel personaggio e solo alla fine ognuno può scegliere la propria frase preferita da commentare.

Le personalità che hanno avuto più successo durante queste lezioni sono state: Nelson Mandela e la storia del bambino attivista Iqbal Masih.

La lezione su Mandela è stata particolarmente interessante: questo grande personaggio, infatti, ha passato 27 anni della sua vita in carcere e perciò i detenuti sono rimasti affascinati dalla sua storia che sentono, in qualche modo, vicina alla propria. M. dice che la sua frase preferita è “L’istruzione è l’arma più potente per cambiare il mondo”: infatti secondo lui, la scuola e l’educazione sono tutto ed è proprio da lì che può iniziare il cambiamento. K. spiega, invece, che lascerà tutto ciò che gli è capitato nella propria cella, abbandonandolo per sempre; si sente vicino alla citazione: “Ho lasciato l’odio nella mia cella”. Un altro ragazzo è profondamente colpito dalla storia di Mandela: “E’ incredibile che dopo 27 anni di carcere quest’uomo sia diventato presidente del Sud Africa e abbia avuto la forza di rialzarsi e lottare”.

Con Nelson Mandela è stato trasmesso un grande messaggio di speranza e umanità.



Decisamente interessante è stata anche la lezione incentrata sulla vita del bambino pakistano Iqbal Masih. Nessuno dei detenuti conosceva la storia di questo bambino venduto dalla sua famiglia all’età di cinque anni ad un mafioso pakistano che lo sfrutta per tessere tappeti. Si tratta di una grande storia di sfruttamento minorile: il bambino riesce a fuggire da questa situazione e a denunciare il suo padrone, ma successivamente all’età di tredici anni viene ucciso per vendetta con un colpo alla schiena. Un detenuto associa questa storia a quella di Giuseppe nella Bibbia (Genesi, Cap. 37), venduto dai suoi fratelli. La religione, che sia musulmana o cristiana, è un elemento molto vivo nel carcere: alcuni detenuti si aggrappano spesso alla fede. Tutti gli studenti sono indignati dalla storia di Iqbal: a loro sembra impossibile vendere un bambino per debito. K. commenta dicendo che, a suo parere, i principali responsabili della situazione di Iqbal sono i genitori e che il padrone mafioso ha una colpa marginale. Tutti gli studenti sono stupiti dalla grande generosità di questo piccolo “grande” bambino, che una volta raccontata la sua storia in tutto il mondo, gli viene dato un premio di 15000 dollari che utilizza per costruire una scuola in Pakistan: “Un bambino deve avere in mano solo penne e matite, mai uno strumento di lavoro” (Iqbal Masih). M. dice che “un bambino schiavo vuol dire una società schiava”. La storia di sfruttamento minorile tocca il cuore di tutti gli allievi. Inoltre, qualcuno è portato a fare un parallelismo con se stesso: Iqbal lavorava 14 ore al giorno, legato ad una catena, alcuni dei detenuti commentano di aver provato una simile situazione di sfruttamento, in età adulta, sul luogo di lavoro nel proprio paese.

Tra i personaggi affrontati durante queste lezioni vi è stato anche Albert Einstein. Il grande scienziato è apprezzato dagli studenti, fino a quando questi sono venuti a conoscenza del fatto che Einstein era di famiglia ebraica. A questo punto, alcuni detenuti musulmani affermano che, a loro parere, sarebbe stato meglio parlare di qualche altra personalità, sicuramente più importante. Si crea così un grande pregiudizio sullo scienziato perché ebreo, considerato cattivo per aver studiato quell’energia che è alla base della bomba atomica. Dopotutto è lo stesso Einstein che dice: “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”.

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